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Dalla lingua all’antilingua, dalla scuola all’antiscuola

  • Nick Mummybook
  • 9 mag 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

Italo Calvino, in un articolo pubblicato su “Il Giorno”, il 3 febbraio del 1965, racconta di un interrogatorio, in cui un tale risponde così alle domande di un brigadiere: “Stamattina presto andavo ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Il nostro scrittore si sofferma a questo punto su cosa diventi questa dichiarazione nel verbale del brigadiere, che, battendo velocemente le dita sulla macchina da scrivere, riporta: “Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”. La stufa diventa impianto termico, trovare - rinvenire, fiaschi di vino - prodotti vinicoli, dietro - retrostante, carbone - combustibile, prendere - asportazione, scassinata - effrazione. È l’anti-lingua! Ovvero la traduzione simultanea in un italiano che nessuno parla ma che sembra dare chissà quale valenza alle cose di tutti i giorni. Col risultato di essere poco comprensibile, contorto e prolisso. Passaggio involutivo, senza alcuna utilità.

Simile rischio corre la scuola. Immaginiamo che l’interrogato sia un docente. E non in una qualsiasi caserma dei carabinieri, ma nell’aula di un tribunale. Portato a giudizio per un senso d’accusa inconscia e persistente di non adempiere come dovrebbe al proprio dovere. L’imputato dichiara: “Ho fatto lezione con i miei ragazzi, il nuovo argomento deve essere ancora assimilato da tutti, tuttavia, partendo da una lettura, abbiamo approfittato per parlare, così in maniera estemporanea, di diritti e doveri, caricando la nostra ora insieme di profonda connotazione oltre il sapere”.

A questo punto, accigliato, incalzerebbe l’avvocato di quel senso del dovere legato molto alla forma e molto poco alla sostanza. Alto e bruno, nella sua toga nera, si avvicinerebbe al banco dell’imputato, con questa serie di domande a raffica. “E ha relazionato sull’andamento didattico-disciplinare? Parla di diritti e doveri in classe, ma lo sa che questi sono argomenti attinenti all’ Educazione Civica? Ha registrato su Argo, visto che tale insegnamento è stato reso obbligatorio dalla legge entrata in vigore nell’anno scolastico 2020/2021? E, per i ragazzi che crede non abbiano assimilato ancora l’argomento, ha previsto un recupero “in itinere”, con innovative strategie didattiche opportunamente dichiarate in forma scritta? E una prova di verifica finale, che accerti conoscenze e competenze, l’ha fissata? E per la correzione si è attenuto fedelmente alla griglia di valutazione stabilita in sede dipartimentale, secondo i parametri ministeriali? E ha provveduto ad informare le famiglie in tempo utile, sapendo organizzarsi tra le riunioni dipartimentali, i consigli di classe e i collegi dei docenti?

L’imputato, docente idealista e sognatore, resterebbe interdetto, smarrito. Affezionato al suo mestiere, attento ai ragazzi e meno alle carte, concentrato su quello che fa e non su quello che scrive di aver fatto, non risponderebbe una sola parola.

A fine processo, il giudice pronuncerebbe tale sentenza: “Il professor docente qualunque, accusato di non ottemperare felicemente alle pratiche burocratiche, intrinseche al sistema scolastico italiano, è riconosciuto colpevole dalla Corte e condannato a seguire un numero esponenziale di corsi di aggiornamento, al fine di acquisire le giuste competenze utili a garantire una corretta registrazione del proprio lavoro, in cui si palesi l’adeguato svolgimento dell’anno scolastico. Lo si condanna a relazionare tutto quanto fatto in classe e fuori dalla classe, sia in formato cartaceo, in triplice copia, sia in formato digitale, in documenti condivisi con colleghi, Dirigente, famiglia, Ministero della Pubblica Istruzione. Di ogni foglio dovrà annotare, e perché no, memorizzare il numero di protocollo”.

Sentenza iperbolica, ma prossima al vero. Di fatto, l’enorme macchina della burocrazia schiaccia, nei suoi ingranaggi di scadenze ad altissima precisione, le energie del docente. In ogni modulo, verbale, relazione ci si allontana da ciò che la scuola significa davvero e si va alla ricerca di un significato altro. Come il brigadiere di Calvino tenta di rendere alta la sua funzione usando una lingua che non è, così tutto quest’apparato di carte e scartoffie tenta di dare smalto alla funzione della scuola, che, di per sé altissima, viene svilita in un numero di protocollo. Il brigadiere scrive nell’antilingua, la scuola diventa l’antiscuola. E come l’italiano muore nel “terrore semantico” di usare termini troppo comuni come “stufa”, “carbone”, “fiasco”, così la scuola soffoca nell’ansia di trascrivere tutto il vissuto scolastico, prima ancora di viverlo e raccontandolo con parole altre, nuove, lontane dalla realtà. In tale sistema, i docenti, anche quelli meno quelli idealisti e sognatori, si trovano prigionieri in una serie di adempimenti legati alla professione, per adempiere ai quali, non hanno tempo e modo di svolgere come si dovrebbe la propria professione!


Nicoletta Tancredi




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