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Scuola: Finlandia - Italia

  • Nick Mummybook
  • 9 gen 2023
  • Tempo di lettura: 4 min

Scrivo alla mamma finlandese, che è venuta e andata via dall’Italia, con marito e 4 figli, in un battibaleno. Sconvolta per il sistema scolastico. E le dico: ma come ti è saltato in mente? Davvero pensavi che alla bellezza del clima mediterraneo corrispondesse un sistema educativo e formativo efficientissimo come quello del Nord Europa, che si inserisce in tutt’altro contesto e civiltà?

Sembra che ti stia bacchettando, ma non è così, anzi mi sento molto simile a te. Anch’io potrei fare una scelta del genere. Chi mi conosce bene lo sa: in quattro e quattr’otto, prendere e partire. Per cambiare, per provare, per vivere. Allettata da chissà quali scenari. Profilando chissà quali prospettive. Ma non sono finlandese: sono italiana. Se dunque dovesse balenarmi un’idea del genere, punterei sicuramente verso Helsinki, Stoccolma, Oslo. E mi verrebbe molto meglio.

Tanto per cominciare, non mi sentirei a disagio io e la mia famiglia, qui considerata numerosa. Mio marito ed io non saremmo additati come folli ed incoscienti ad aver messo al mondo tre figlie, in un momento in cui si punta a garantire il massimo benessere al numero minore di persone e in un Paese che non si distingue certo per politiche a sostegno della famiglia. E poi, per le strade di una città o cittadina del Nord Europa, potremmo spostarci in bicicletta, come abbiamo visto fare alle giovani madri, durante la luna di miele, in Svezia e Norvegia: biciclette con un enorme cesto per i bambini. Fantastiche! Da allora non le ho più viste. Era il 2010.

Ma veniamo alla scuola. Sai che la scuola finlandese qui in Italia è ammirata come un modello impossibile da raggiungere? Nella scuola italiana, quella da cui sei scappata, io ci lavoro. Così pure mio marito. E a volte vorrei scappare anch’io. Ed anche lui. Poi ci resto. E ci restiamo. A lottare contro i mulini a vento. Finché pazienza non ci abbandonerà. E ti dico: hai ragione! Sono anni che le riforme italiane non tengono conto della didattica. Non mettono al centro il discente. Troppo tempo che non si investe per rinnovare le strutture. E, quando i soldi arrivano, che facciamo? Compriamo i banchi a rotelle, per poi lasciarli marcire negli scantinati!

Aumentiamo il numero di ore di lezione al giorno, per tenerci il sabato libero. Ma le nostre scuole, il più delle volte, non hanno palestre, biblioteche, sale lettura, mense, spazi all’aperto, laboratori. Un numero maggiore di ore, per tenere gli alunni fermi, in un’aula. Fermi, sì! Per evitare che si facciano male. Ma venti, trent’anni fa non era così. Abbiamo fatto passi da gambero. I bambini si muovevano molto di più, uscivano in cortile, in classe adoperavano forbici o altri piccoli strumenti per sviluppare la manualità. Oggi, queste attività sono annullate o ridotte al minimo o resistono laddove vi siano docenti più “temerari”. Per la stragrande maggioranza, vale la regola del “Non farsi male”. Con tutte le ricadute sull’acquisizione di autonomia dei bambini, cui vengono negate molte esperienze. Anche in aula. Figuriamoci fuori. Ma vai a vedere un po’ i fatti di cronaca. Leggi quante e quali responsabilità gravano sui docenti. Io faccio una battuta, amara ovviamente, ai miei ragazzi: “Se dovete farvi male, non nella mia ora!

Inseriamo nuove attività, come l’Educazione Civica trasversale a tutte le materie. Sai cosa vuol dire? Che devono insegnarla tutti i docenti, anche i proff. di quelle discipline che hanno due ore di lezione a settimana in classi cosiddette pollaio, per il numero elevato di studenti, dove è difficile già trasmettere i contenuti basilari.

Nulla è tarato sulle forze e le esigenze dei protagonisti veri della scuola: i ragazzi. Noi docenti siamo oberati da adempimenti burocratici, che nessuno riconosce. La scuola è diventata un “progettificio”. Una partecipazione smodata a tante varie attività, opportunamente sponsorizzate sui social a ritmo più veloce di ogni campanella. Nella logica della scuola-azienda. Laddove la formazione non è prodotto. Non è numero. Ed è la stessa scuola a distrarre i ragazzi, che dovrebbero essere concentrati solo sullo studio, sulla lettura, impegnati a crescere. Togliamo loro tempo, mandandoli a lavorare, con la scusa dell’inserimento nel mondo del lavoro. Si chiamano percorsi di Pcto. Anche qui, vai a leggere cosa succede, tra le pagine di cronaca, se capita la tragedia. E infine, come un’azienda, facciamo gli open day: ci vendiamo. Come se la conoscenza si potesse esporre in bella vista in vetrina, come se per il sapere ci si dovesse prostituire!

Lamenti il fatto che non ci sia un intervallo di 15 minuti ad ogni lezione. Sarebbe fisiologico, certo. Ma sai cosa si dice dei docenti italiani? Che lavorano poco o niente. "Solo 18 ore a settimana!" Saremmo accusati di non fare neanche quelle. Perché il lavoro sommerso chi non lavora nella scuola non può vederlo e neanche immaginarlo. “Tre mesi di vacanze all’anno” denunciano gli impiegati al fresco dell’aria condizionata nei loro uffici, mentre i proff fanno esami e corsi di recupero in aule-forno, a luglio e ad agosto. Perché qui al Sud fa caldo a dicembre, come ti sarai accorta, figurarsi in estate!

Infine le famiglie. Generalmente sanno tutto. Su come si insegna, loro che magari hanno lasciato la scuola da un ventennio. Su come si accende l’interesse dei loro figli, loro che li tengono attaccati al cellulare da mattina a sera, dall’età di pochi mesi. Su come si valuta, loro che non sanno dire un “no”. Su cosa faranno i nostri alunni, loro che non sono soddisfatti e riversano le proprie aspirazioni sui figli. Tutto il loro sapere viaggia a velocità supersonica sui gruppi Whatsapp.

Eppure ci sono, in questo calderone di disservizi, di attuazione di logiche illogiche, in questo clima di stress, in questi spazi stretti e ristretti, ci sono dei docenti che amano il proprio lavoro. E degli alunni che amano apprendere. Che vogliono imparare. In un’aula povera e scarna. Magari senza neanche la Lim. Puoi trovare docenti che fanno della scuola una ragione di vita. Che incrociano lo sguardo fiducioso di chi siede tra i banchi e per cui sentono di dover dare il meglio. È per costoro che la scuola italiana procede ancora. Resiste. Con pochissima spesa.

Hai portato via i tuoi figli. E ti capisco pienamente. Ma se ti fossi data un po’ di tempo in più, chissà, avresti avuto incontri speciali. Pochi. Ma di quelli che ti segnano. E ti formano. Perché non siamo solo ciò che sappiamo. Ma siamo anche il modo in cui impariamo.

Un unico appiglio. Ma importante. Per il resto, Finlandia - Italia 10 - 1

Nicoletta Tancredi




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